A furia di vederselo davanti era diventato tappezzeria! Piccola storia del Villaggio Morelli

«Il fine principale del nostro lavoro è mettere la popolazione in grado di capire il suo patrimonio e quindi sé stessa. Io sono studiosa di paesaggio e anche la Convenzione europea afferma che esso è l'identità culturale delle popolazioni. Basta guardarlo per capire come una comunità si esprime attraverso i secoli. Ciò che manca attualmente, e questa è una mia interpretazione di cui ho discusso spesso, condivisa da altri studiosi, è una percezione del patrimonio del Novecento, che in architettura si manifesta con un razionalismo duro, per certi versi urticante. Una corrente che necessita degli strumenti culturali adatti a capirla, a comprenderne il significato e a relazionarla a livello internazionale. È per questo motivo che il nostro atto di debutto, nel 2010, è stato un convegno internazionale sull'architettura intitolato "Villaggio Morelli. Identità paesaggistica e patrimonio monumentale". Manca ancora quasi completamente la consapevolezza di possedere alcuni capolavori del Novecento modernista. Quando mi sono accorta che persino la gente che lavorava da più di dieci anni nell'ex Villaggio Sanatoriale non riusciva a “vederlo”, mi sono detta “va bene, adesso ve lo faccio vedere io!”».
Luisa Bonesio, direttrice del Museo dei Sanatori e docente all'Università di Pavia
Questa è la storia del Villaggio Morelli, una ‘città di fondazione' alpina che fu anche il più grande sanatorio d'Europa mai costruito. Un coagulo muto di sogni e significati che è impossibile far parlare senza affidarsi a delle voci esperte come quella della sua direttrice, Luisa Bonesio, docente di Estetica all'Università di Pavia. Testimone vivente della socialità che lo animava, questa determinata studiosa di paesaggio è riuscita non solo a garantire lo svolgimento annuale di eventi culturali e di visite guidate alla scoperta del parco e dell'ex complesso sanatoriale ma anche ad inaugurare, con un progetto del Politecnico di Milano che ha vinto la medaglia d'oro del premio Domus Restauro, nel 2015, il Museo dei Sanatori.
Ospitato in un edificio a pianta tonda finemente restaurato con materiali d'epoca originali, il museo posto all'ingresso del complesso era un tempo l'ufficio accettazione dell'intero villaggio. Già da qui è possibile rendersi conto della cura funzionale ed estetica con la quale è stata progettata l'architettura sanatoriale nel suo complesso.
Un'attenzione ricercata al minimo dettaglio si coniuga a Sondalo con un piano costruttivo integrato, visionario ma lucido.
Muri, strade, ponti, arcate, piazze, giardini ed edifici sono in costante dialogo reciproco e, come sospesi nel tempo, stanno ancora tutti lì quasi a voler sottolineare la fatica e la potenza con cui, dal 1932 al 1939, si è sfidata la montagna accettandone pienamente regole e armonie.
Non è tanto una intuizione immediata quella che permette di coglierne la forza espressiva quanto piuttosto un lento, spontaneo affioramento di accordi e inaspettate corrispondenze a modelli e prospettive molteplici ma insolitamente presenti unitariamente. Rimandi artistici e filosofici si rincorrono ininterrottamente ma è solo ‘scuotendolo' alla ricerca di ciò che vi si addensa che è però possibile scoprire il segreto del fascino così misterioso, straniante del Villaggio Morelli.
Il metodo migliore è forse quello di lasciarsi guidare dalla sua storia lungo i sinuosi tornanti che lo attraversano, immaginandolo nel pieno della sua passata vitalità: 2500 pazienti e 1500 persone di servizio fra medici, giardinieri, infermieri, portantini e addetti vari.
Una vera e propria città modernista, all'epoca ben più grande del paesino a valle.
Una città pensata e progettata minuziosamente in tutti i suoi aspetti sociali, urbanistici, sanitari, paesaggistici.
Funzionale non solo rispetto alla cura della tubercolosi e dunque efficiente, dotata delle migliori terapie sintomatologiche e con a disposizione dei malati i medici più accreditati a livello internazionale.
Nove padiglioni comunicanti dotati ognuno di un proprio cinema-teatro, di una scuola di alfabetizzazione, di un atelier di pittura e di una biblioteca di sovente autogestita dagli stessi degenti; una chiesa, una piazza, un campo da bocce, un parco sterminato e profumato da una selezione delle essenze arboree più benefiche.
E ancora giardini pensili, glicini rampicanti. Piccoli negozi ubicati ad ogni curva della strada in strutture architettoniche circolari che riprendevano, all'interno del villaggio, il tema della «rotonda», quello dell'edificio della portineria centrale posto all'inizio del complesso, ora divenuto Museo.
Una rete idrica autosufficiente e un ciclo dei rifiuti integrato erano inclusi nel disegno progettuale come pure una porcilaia nel piano più elevato del villaggio al fine di recuperare gli scarti organici provenienti dalle cucine.
Tutto ciò emerge con forza da una visita guidata a questo inestimabile patrimonio storico e architettonico.
Un documento paesistico straordinario, complesso, stratificato, multiforme; un luogo nato dalla volontà di ricostituire il cittadino nella sua funzionalità integrale, innanzitutto nella salute ma anche appunto come parte attiva della propria comunità di vita, in possesso dunque di una dotazione culturale minima, di competenze professionali e abilità relazionali rinvigorite.
La bellezza in quest'ottica era una componente insostituibile della cura e perciò perseguita alla stessa stregua degli accorgimenti tecnici, operativi e architettonici.
Non a caso «bellezza» è anche la parola che usano di più le persone anziane quando ne parlano; quelle che ancora si ricordano del grande villaggio, di com'era lavorare in questo brulicare di mondi lontani tutti raccolti sulle ripide pendici del monte. Malati provenienti da ogni zona d'Italia, di diversi caratteri, estrazioni sociali e attitudini individuali costretti per mesi a socializzare passeggiando lungo una ventina di chilometri di percorsi studiati apposta per facilitare la quiete, il riposo, la ricostituzione fisica e spirituale degli ospiti.
Il Villaggio sanatoriale non esiste più per come è stato finora descritto. L'azienda ospedaliera della Valtellina e Alto Lario utilizza attualmente circa un terzo del complesso mentre il resto, dismesso, è a rischio di un inevitabile degrado. La popolazione locale pare non accorgersi della sua presenza massiva e non sembra capace di cogliere tutte le implicazioni di un possibile quanto auspicabile recupero delle poderose tracce architettoniche celate ormai dalla crescita degli alberi del parco, abbandonati a se stessi sebbene elemento fondamentale e integrato nel progetto insediativo originario.
Qualcosa però, da quando c'è il Museo dei Sanatori, sta forse cambiando. Essere entrati a far parte del sistema museale provinciale ha garantito maggior interesse e visibilità circa il destino del complesso architettonico e la convinta partecipazione di qualche ex dipendente del villaggio e di insegnanti nella gestione delle aperture del museo ha permesso di disporre di ‘personale volontario' preparato e competente, che conosce da vicino ciò di cui si parla e che è parte integrante del tessuto sociale locale. La sfida sempre aperta è riuscire a coinvolgere maggiormente gli amministratori e la popolazione in quest'opera di contestualizzazione ermeneutica, per valorizzare ancora di più questo coraggioso intervento di recupero storico della memoria valtellinese.
Vesna Roccon