Bosco, legno, paesaggio nelle Alpi. Una riflessione di Annibale Salsa

Bosco, legno, paesaggio nelle Alpi [1]

AnnibaleSalsa
Antropologo e Presidente del Comitato Scientifico di tsm|step

 

Questo intervento non può che essere di taglio antropologico-etnografico per riflettere sul significato che il legno ha avuto in passato e può avere ancora oggi nello spazio alpino. Queste territorio è attraversato da un filo rosso che unisce e lega nella storia le differenti regioni delle Alpi e ha prodotto una cultura diffusa. Tuttavia, all'interno di questa cultura/civiltà vi sono grandi differenze. Pertanto, se vogliamo rappresentare lo spazio alpino con una metafora, dobbiamo affermare che è “espressione dell'unità nella diversità”. Le diversità riguardano anche i paesaggi e, all'interno di questi, l'uso dei materiali.

C'è un modo di dire delle comunità Walser – le comunità originarie del Vallese che nel 1200/1300 sono state insediate stabilmente nelle Alpi centrali – che afferma: “dove ci sono i capelli biondi e le case sono in legno c'è una comunità Walser”. È ovviamente una semplificazione, ben inteso, ma esprime una tradizione che identifica nel legno il materiale costruttivo dominante per le comunità nordico/germaniche e la pietra per quelle latine. Questa semplificazione è in buona parte vera, ma non ha valore assoluto (è necessario evitare costruzioni idealtipiche, o tipizzazioni ideali, come insegna Max Weber). Su questo divergono alcune scuole di pensiero, in particolare le due che fanno capo a Jacob Hunzicker e Richard Weiss, i quali orientano l'interpretazione su due linee differenti: Hunzicker in qualche modo si riallaccia all'espressione Walser sopra richiamata, dando un'interpretazione etnocentrica. Weiss, invece, riconduce l'uso dei materiali alle disponibilità presenti sul terreno. In Trentino troviamo in particolare la casa mista pietra/legno. Così come la Regione del Gottardo in Svizzera dove prevale una tipologia costruttiva che prende il nome di Gottard House (Casa del Gottardo). Una combinazione simile la troviamo, ad esempio, nelle costruzioni delle Giudicarie.

Questa seconda interpretazione, diversamente dalla prima, si ispira alla teoria funzional/strutturalista: se è vero che ogni cultura è legata nella storia e nelle tradizioni a materiali specifici, è anche vero che le popolazioni che vivono nella montagna, cioè territori difficili per il reperimento di materiale, non fanno scattare una pregiudiziale etnica, ma si adeguano a quello che è il materiale a disposizione. Infatti, in molte valli di lingua e culture tedesche, nella fascia della media montagna si trova la prevalenza del legno ma se ci spostiamo in quota al di sopra del limite della vegetazione permanente, si trova una situazione diversa. È il caso della Val Sesia: se si osservano le malghe della Val Sesia si può notare che sono in pietra (Alpe Pianmisura), mentre le case dei villaggi sono in legno. Quindi in questo senso la tesi funzional/strutturalista di Weiss ha una palese conferma.

Certamente non è da escludere nemmeno l'ipotesi etnocentrica: lo si vede nelle coperture, nell'uso della scandola. In particolare, la scandola in larice è largamente diffusa in tutte le Alpi Centro-Orientali, mentre lo è molto meno nelle Alpi Occidentali. Ma se si va a vedere nelle Alpi Occidentali ci si accorge che sul versante piemontese predomina la copertura in sasso – e così pure in Savoia – mentre nel Delfinato e nell'Alta Savoia prevale l'uso della scandola. Lo stesso accade nella parte più orientale delle Alpi: in Slovenia si ritrova l'uso della scandola che non è la stessa del Trentino o del Tirolo, ma ha una forma allungata, non è lavorata in terza, cioè per sovrapposizione con altri due strati sovrapposti, ma è disposta su di un unico piano.

Queste sono le domande che gli antropologi si pongono. Quando osserviamo un paesaggio vediamo che questo è caratterizzato da una presenza prevalente del legno, ma non sempre a questo paesaggio corrisponde un'etnia e una cultura di tipo germanico. Per cui la teoria funzionale/strutturalista corregge gli eccessi dell'etnocentrismo, ossia le semplificazioni. Non bisogna leggere i fenomeni in un'ottica semplicistica: la realtà dei fenomeni è complessa e la complessità riguarda tutto sia gli ecosistemi che i sistemi culturali e le organizzazioni sociali.

 

Che significato dare, quindi, a queste parole chiave: bosco, legno e paesaggio?

Anzitutto che cos'è il bosco? Parlando di bosco si deve avere un riferimento ben preciso: il bosco non è la selva, non è la foresta. Il bosco è la foresta addomesticata. Quindi, il bosco implica la cura e la coltivazione. Questi due fattori non vogliono dire necessariamente l'artificializzazione, perché allora non si avrebbe più un bosco ma un'alboricoltura, come le pioppete della Pianura Padana. In Trentino c'è la cultura della cura del bosco o, almeno tradizionalmente, era molto diffusa. Vi sono ancora oggi eccellenze come quella della Valle di Fiemme dove chiaramente la cura del bosco è un elemento importantissimo. Però talvolta succede che, per esigenze economicistiche, si tende a favorire una coltivazione con essenze forestali coetanee anziché disetanee. Guarda caso, la tempesta Vaia è andata a colpire prevalentemente i boschi del primo tipo. È vero che Vaia era imprevedibile, ma i danni maggiori che questo evento climatico ha avuto, sia nella parte trentina – soprattutto quella orientale –, ma anche nella parte veneta (Altopiano dei Sette Comuni) e friulana (Carnia), si sono registrati in quei territori laddove, dopo la fine della Prima guerra mondiale, sono stati fatti dei rimboschimenti massicci di abete rosso in un territorio il cui habitat non è quello della pecceta. Poiché l'Altopiano di Asiago costituisce la facies esterna a sud delle Alpi, il suo habitat naturale sarebbe quello del faggio associato all'abete bianco (in misura rarefatta rispetto al faggio). È questo il paesaggio tradizionale, diversamente da quello che abbiamo conosciuto con le estensioni boschive di abete rosso.

Tali forme di rimboschimento rispecchiano particolari ideologie: non sempre adottano un modello scientifico rigoroso. L'ideologia di riferimento per questo tipo di operazioni di rimboschimento è quella napoleonica, allorquando le politiche avviate da Napoleone in Francia erano indirizzate a favorire il bosco a discapito delle colture. Ciò anche per ragioni etico-politiche, perché in qualche modo si volevano mettere le comunità contadine in una posizione di subalternità rispetto al ruolo egemonico che invece avevano le città, e quindi il bosco cresce da solo e non ha bisogno dei contadini che se ne prendono cura.

Questa ideologia del rimboschimento ad ogni costo si è travasata poi nello Stato unitario italiano e soprattutto, dopo la fine della Prima guerra mondiale, durante il Ventennio Fascista. La pratica si è accompagnata con la demonizzazione delle capre, e con l'introduzione di specie eteroctone, cioè non originarie del luogo, in luoghi che non erano vocati a questa funzione. In Trentino abbiamo esempi di cattivo impianto forestale che fanno riferimento, ad esempio, al Pino nero. Questa è stata una delle prime essenze – importate dal Carso e dall'area balcanica – introdotte negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra e di cui oggi è possibile valutare l'impatto ecosistemico che ha prodotto delle aberrazioni come quelle legate, ad esempio, alla presenza della processionaria. Si hanno così delle fasce boschive di Pino nero ammalate e che hanno peggiorato la situazione dei boschi e dei territori limitrofi: era meglio lasciare che la vegetazione spontanea si appropriasse del territorio seguendo i suoi tempi e ritmi. Il valore colturale del Pino nero è di nessun conto: si possono realizzare cassette o materiali di scarto, quindi di basso valore. In alcune zone si è messo mano a devastazioni paesaggistiche causate da piante importate da oltre Atlantico, come i Pino strobo o l'abete di Douglas. Si è trattato di scelte che si sono rivelate anti ecologiche. Bisogna stare attenti quando si introducono elementi naturali nuovi, perché il rischio è che si alterino gli equilibri esistenti, producendo un impoverimento ecologico, sistemico ed estetico.

Quindi i paesaggi delle Alpi sono stati alterati a causa di queste politiche di cattivo rimboschimento. Vaia lo ha dimostrato. Ma è possibile passare dalla calamità all'opportunità. A partire dagli anni Settanta c'è stato uno spopolamento della montagna che ha causato un rinselvatichimento veloce che ha occupato gli spazi liberi mutando il paesaggio alpino caratterizzato dall'alternanza e dalla discontinuità.

Il paesaggio forestale non può essere mono-colturale in quanto verrebbe esposto, come tutte le monocolture, all'attacco dei parassiti. Esiste un problema di difese immunitarie, che vale per gli uomini come vale per le piante: se noi ci indeboliamo, se noi non troviamo accoglienza, in un habitat a noi confacente, siamo attaccati dalle malattie. Infatti il Pino nero è ammalato, così come gli abeti rossi siti in fasce altimetriche non consone al loro sviluppo: ecco l'esperienza che bisogna trarre dalla tempesta Vaia.

Il bosco non è selva, né foresta: il bosco non è estraneo alla comunità, dunque appartiene allo spazio della domesticità. Si è capito finalmente che il legno ha un'anima e che il legno è una risorsa, il legno è eco-sostenibile, quindi la bio-architettura va in quella direzione. 

 

Ho scritto tempo fa su di una rivista di artigianato valdostano del legno un articolo dal titolo: “Perché un mestolo non è più un mestolo?”. ll mestolo non è più un mestolo da quando è stato sostituito da mestoli di altri materiali che non sono il legno. Questo ci consente di capire e di affermare che ci siamo allontanati dalla natura, certamente da una natura socializzata, che non ha niente a che vedere con la wildeness ma, appunto, con una natura addomesticata. Il ritorno dell'attenzione nei confronti del legno assume un'importanza enorme. Rispetto a questo l'Italia, ma in particolare le Alpi, si trovano in una posizione marginale rispetto alle aree transalpine. Dopo la tempesta Vaia dove è stato portato il legname? In Austria. Se non ci fosse stata l'Austria probabilmente quel legno sarebbe andato a marcire. Ma, in Italia, importiamo tutto. Allora noi siamo in una situazione dove per anni abbiamo trascurato l'importanza di questa risorsa, sostituendo il valore e il ruolo del mondo naturale con quello artificiale, invece di cercare di veicolare politiche, strategie e sviluppo verso un'ibridazione tra il naturale e il culturale. Il rilancio del legno può aiutare a riscoprire questo legame. In Alto Adige, ad esempio, il legno viene utilizzato anche per fare le montature degli occhiali. Sta nascendo una nuova sensibilità, una nuova attenzione verso quello che un tempo si dava per ovvio, banale e scontato e che quindi non meritava nemmeno di essere preso in considerazione.

L'uso del legno può tornare, quindi, a conferire valore al paesaggio inteso come alternanza dei materiali e come identità. Identità e diversità sono connesse: senza diversità non c'è identità e questa diversità è data anche dall'uso dei differenti materiali che rafforzano l'identità dei luoghi. Quindi anche l'identità, anche il paesaggio, sono processi dinamici che si evolvono, crescono e cambiano/mutano nel corso del tempo. Però questa nuova identità è un elemento su cui bisogna, necessariamente, riflettere. 

 

[1] Questo testo è un'elaborazione della registrazione dell'intervento del 10 ottobre 2019 tenuto da Annibale Salsa nell'ambito del XIII ciclo di “PROGETTO_PAESAGGIO. LEGNO E PAESAGGIO” e dal titolo “Il valore del legno. Culture, tecniche costruttive e paesaggi del legno”. Il testo mantiene volutamente l'immediatezza dell'oralità.

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