Costruire rifugi: una conversazione con Luca Gibello

Nel nostro Paese esistono rifugi bicentenari. Infatti i primi ricoveri, spartani, con tavole di legno e paglia, rigorosamente per alpinisti, risalgono agli anni Cinquanta dell'Ottocento. Da allora ne è caduta di neve su quelle povere coperture e i rifugi hanno avuto un'evoluzione enorme.
Lo sa bene Luca Gibello, architetto, da nove anni direttore de Il Giornale dell'Architettura e dal 2012 tra i fondatori dell'Associazione culturale Cantieri d'Alta Quota. Gli abbiamo chiesto di raccontarci evoluzione e prospettive future di questi presidi, tanto amati quanto difficili da gestire.
Come sono cambiati i rifugi nel corso della storia?
I primi ricoveri di fortuna erano riservati ad alpinisti e all'attività scientifica in alta quota, dalla geografia alla glaceologia e quant'altro. Poi poco alla volta hanno seguito l'evoluzione dell'alpinismo. Oggi il rifugio, da almeno 30 anni a questa parte, vede aumentare i clienti giornalieri mordi e fuggi e diminuire gli alpinisti. Cioè, quasi non esistono più gli utenti per cui i rifugi erano stati costruiti. E questo ha cambiato nettamente il tipo di ospitalità e confort delle strutture. Chi effettua trekking di più giorni o chi sale a mangiare polenta richiede confort più elevati degli alpinisti: il trekker vuole fare la doccia ogni sera e preferisce dormire in camere più riservate che non nelle camerate. Chi sale a mangiare la polenta, il mordi e fuggi, spesso non realizza neanche bene dove sia arrivato e fa richieste a volte assurde come tavoli riservati, lo spritz o carta dei vini. E alcuni rifugisti purtroppo li assecondano.
Come si costruiscono oggi?
A partire dagli anni Novanta la costruzione di rifugi è diventata sempre di più un laboratorio di progettazione, sviluppando tutto il discorso sulla compatibilità ambientale, quello sul risparmio energetico e tanto altro. Tutto questo nel giro di trent'anni ha permesso di dare una spinta notevole alla ricerca progettuale, che poi ha avuto echi anche nell'architettura di pianura. In quel periodo si è cominciato a considerare il rifugio non più come la baita o lo chalet di montagna, spesso stereotipato, ma ad un edificio che si colloca in un paesaggio molto particolare e quindi si è lavorato con grande attenzione al tema dell'inserimento ambientale di nuove strutture. Sono venute fuori opere interessanti e controverse, estremamente di rottura rispetto ai cliché, come il rifugio Gonella, il Neue Monte Rosa Hutte o il Gervasutti. E queste sperimentazioni hanno avuto riflessi nell'architettura più in generale, ad esempio nella costruzione di prefabbricati, nell'attenzione maggiore a scegliere i materiali giusti o a gestire cantieri in situazioni scomode. Ma ormai molto è stato fatto o tentato, e almeno negli ultimi sei anni grosse sperimentazioni non se ne sono più viste.
E la manutenzione?
Oggi è il grande tema. Adeguamento e manutenzione: eliminare ad esempio l'amianto dai tetti o cercare di intervenire sugli impianti per adeguarli. In una parola, ammodernare l'esistente. E non sarei così drastico sull'eliminare dalle scelte possibili la demolizione del vecchio da sostituire col nuovo, laddove le strutture non hanno valenza storica. Oggi dovremmo anche pensare ai rifugi in termini di decrescita felice. Di alcuni si possono tranquillamente ridurre le dimensioni, dal momento che l'utenza non alpinistica richiede meno il pernottamento e più l'appoggio in giornata. In alcune situazioni addirittura, con rischi ambientali dettati dalle fondazioni che cedono o da crolli di roccia si può pensare a uno smantellamento senza ricostruzione.
Come rendere sostenibile un rifugio?
Si integrano impianti fotovoltaici dove si può, si realizzano impianti di micro-idroelettrico o eolico, si sostituiscono i serramenti, si mettono nuovi rivestimenti e involucri più performanti e si lavora al miglioramento della sosteniblità dal punto di vista della gestione. In questo periodo di forte propensione allo sharing e alla digitalizzazione spinti, dobbiamo cominciare a pensare a strategie di gestione dove l'utente è corresponsabile con il rifugista. Chi chiede di salire a mangiare magari può contribuire al trasporto delle derrate alimentari e chi consuma in rifugio può riportarsi a valle i propri rifiuti, diminuendo così il numero delle rotazioni a fronte magari di uno sconto. Perché se non cominciamo a cambiare modalità di gestione dei rifugi non riusciremo mai a renderli più sostenibili.
A cura di Maurizio Dematteis